Orchestra Filarmonica Campana

PASSAGGI DI TESTIMONE

Ci sono musicisti che incarnano superbamente lo spirito di un’epoca. Ne rappresentano l’essenza, amplificando il contorno spirituale e artistico con pochi tratti di umore e di penna. E’ quello che avviene con Sergej Rachmaninov, Franz Liszt e George Gershwin i quali il destino insomma era quello predestinato di una musica che sapesse riflettere la visione del romanticismo Musicale, del virtuosismo pianistico e anche dell’America “invitante e carica di brio”, sulla quale Gershwin avrebbe chiuso il conto più avanti. La ruggente Jazz Age che persino nelle storie hollywoodiane di Francis Scott Fitzgerald riscatta le zuccherose e vacue commedie tardo ottocentesche è il frutto di una possente rivoluzione. Già nel 1916 la figura centrale nella commedia “The Melting Pot” di Israel Zangwill era quello dell’ebreo russo immigrato, che compone un’American Symphony. I tre compositori si cimentano in maniera ampia e diversissima con il genere della Rapsodia, un tipo di componimento strumentale libero, che non segue uno schema fisso, ma si presenta come un insieme di spunti melodici, anche molto diversi tra di loro per ritmo e armonia.  Rachmaninoff, Liszt e Gershwin riescono a far esplodere questa forma sfruttando ogni suo potenziale: dalla liberazione di energie passionali all’apertura sull’infinito, dal fattore che disgrega la monolitica tradizione sinfonica all’arte dell’improvvisazione. Scritta nell’estate del 1934, la Rapsodia su un tema di Paganini fu eseguita dallo stesso Rachmaninov a Baltimora, il 7 novembre 1934, con l’orchestra diretta da Leopold Stokowsky. Il tema su cui si basa è quello del ventiquattesimo ed ultimo Capriccio per violino solo già utilizzato da Liszt e da Brahms nelle loro composizioni dedicate a Paganini; tale tema è seguito da ventiquattro variazioni organizzate per gruppi, ciascuno dei quali individua un diverso atteggiamento, quasi a suggerire un programma; ciò giustifica il titolo di Rapsodia in luogo di quello, dal punto di vista formale più rigoroso, di Tema con variazioni. II tema viene esposto all’inizio da tutti violini all’unisono. Poi le prime sei variazioni, a cominciare dalla prima, chiamata Precedente perché offerta come un preliminare limitato a definire lo scheletro armonico del tema, si dedicano a mettere in evidenza un virtuosismo soprattutto orchestrale, assecondato da un pianismo stilisticamente affine a quello di Prokof’ev. Nella settima variazione che inaugura il secondo gruppo di variazioni, si introduce e dura fino alla decima il tema del Dies irae che si sovrappone variamente a quello paganiniano, giocando con esso. Nell’undicesima, nella dodicesima (che è un Tempo di minuetto) e nella tredicesima variazione il pianoforte si stacca gradatamente dall’orchestra fino a contrapporsi ad essa. Così orchestra e solista prendono ad esibirsi da protagonisti, l’uno nella quattordicesima, l’altro nella quindicesima variazione. Con la sedicesima variazione si entra in atmosfera sentimentale, culminante nel canto estremamente espansivo della diciottesima in re bemolle maggiore (Andante cantabile). Dopo di che si scatena una serie di variazioni indiavolate col ritorno anche del Dies irae, dove solista e orchestra gareggiano in bravura. Finché, dopo una sua cadenza, il pianoforte afferma la propria solistica supremazia, dominando la ventiquattresima e ultima variazione, con un virtuosismo altamente trascendentale. «Ho voluto fare una specie di epopea nazionale della musica tzigana. Con la parola «rapsodia» ho inteso alludere all’elemento fantasticamente epico che ho creduto di riconoscere in questa musica. Ognuno di questi frammenti non narra alcun fatto, è vero, ma chi sa intenderlo vi coglie l’espressione di alcuni degli stati d’animo nei quali si compendia l’ideale d’una lezione. I Magiari hanno adottato gli tzigani come loro musicisti nazionali. L’Ungheria può dunque a buon diritto avocare a sé quest’arte, nutrita del suo pane e del suo vino, maturata al suo sole e alla sua ombra, e tanto strettamente penetrata nelle sue abitudini da legarsi alle più gloriose memorie della patria». Così Liszt, nel suo saggio “Des Bohémiens et de leur musique en Hongrie”. Riplasmando al fuoco del suo pianismo prestigioso gli elementi di folclore sonoro da lui assimilati nei suoi primi anni, Liszt si riallacciò dunque propriamente alle tradizioni musicali degli tzigani piuttosto che a quelle autoctone della sua patria. Di queste ultime s’era persa ogni traccia ai suoi tempi. Toccherà assai più tardi a Bartok e a Kodaly assumersene la paziente opera di ricupero. Formata al modo tipico di questo genere di composizioni, l’opera, cui dà inizio uno spunto di canto austero, largamente scandito a note ripercosse, si articola in vari frammenti che portano, con estrosa volubilità, dalla calma solenne e malinconica dell’esordio a una veemenza di accenti e ritmi sempre più gioiosa e trascinante. Il lungo e sinuoso glissando del clarinetto che sibila dal trillo sul fa basso al si bemolle acuto, celebre esordio della Rhapsody in Blue è divenuto via via il simbolo dell’America anni Venti: il fregio delle orchestrine jazz nobilitate ad una veste colta e lo stemma dei trascinanti swing intonati ai civettuoli petting parties del Great Gatsby. L’atto di nascita del jazz sinfonico, della redenzione dei canti degli ex-schiavi in un’America ancora puritana e wasp (ricevimenti in abito chiaro e farfallino d’ordinanza, un’ombra di brillantina sui capelli) è datato 12 febbraio 1924, in una sala di riferimento per la musica newyorkese, la Aeolian Hall. L’agognato accostamento di jazz e radice sinfonica – che aveva già prodotto esemplari atipici come la Rhapsodie nègre di Powell e la Jazz Sonata di Antheil (per non parlare delle citazioni più ambigue adottate da Ravel e Stravinskij) – è il frutto deliberato di un “Esperimento nella Musica Moderna” voluto dal direttore d’orchestra Paul Whiteman. Fu lui che, dopo aver adocchiato il ventiseienne autore di Blue Monday, volle offrirgli l’occasione per mostrare il suo talento sinfonico di fronte ad una platea eccellente. Così dopo un primo contatto verbale caduto nel vuoto, Gershwin si ritrovò inconsapevolmente arruolato in un articolo del “New York Herald Tribune” che reclamizzava la serata in anticipo di un mese. Per George la reazione, invece che di terrore, fu di rinnovata energia. La struttura fu pensata in poche ore, su un treno che lo portava a Boston per la prima di Sweet Little Devil: “Ero altalenato dal battito delle ruote, da quel caratteristico rumore ritmato che stimola la fantasia dei compositori… quando d’un tratto sentii, vidi sulla carta lo schema completo della Rhapsody”. In breve, Whiteman ebbe lo spartito per pianoforte e lo diede a Ferde Grofé (futuro autore della Grand Canyon Suite, resa celebre dall’incisione di Toscanini) perchè lo strumentasse per orchestra jazz. Alla prima newyorkese le personalità più disparate – Heifetz e Stokowsky, ma anche Mengelberg, Sousa, Damrosch, Stravinskij e Rachmaninov – accorsero ad applaudire, uscendone – chi più e chi meno – convinti. Certo che, vista di sfuggita, quest’opera che fa uso abbondante di ritmi cubani come il Clave (variante della rumba) e il Charleston merita almeno un paio di approfondimenti. Il primo è suggerito dal titolo, con quel Blue che allude al prototipo della scala blues (cromatismo fra terzo e quarto grado di una scala pentatonica minore). In realtà, Gershwin volle rifarsi anche ad un’associazione sinestetica, cara tanto al simbolismo francese quanto all’inglese Whistler, il pittore amico di Mallarmé: il blu notte come connotazione che arricchisce il panorama dei suoni, richiama i colori crepuscolari e i profumi notturni. Non solo, c’è anche l’uso di un formulario jazz, forse meno generoso di quel che può sembrare in superficie. Sotto una cupola circolare si susseguono in forma rapsodica un primo tema (inebriato di swing), un secondo (più agitato e convulso) e un terzo (il motivo blues). Tutti quanti vengono riesposti, ricapitolati e mescolati liberamente sino all’ultima affermazione del clarinetto, in coda. Ma nell’insieme la fedeltà al jazz è minata dall’assorbimento al mondo del musical e di Browdway. Indubbiamente la radice più autentica e vera per un autore come Gershwin, in un pezzo consegnato ai destini della storia: si pensi alla fortuna strepitosa attraverso innumerevoli versioni classiche (due pianoforti, pianoforti e orchestra sinfonica, due pianoforti e orchestra), ma anche agli spericolati adattamenti popolari (complesso di armoniche a bocca), cinematografici (Manhattan di Woody Allen) e radio-televisivi.