NEL PARADISO DI BRUCKNER
La grandezza delle sinfonie bruckneriane è un gigantismo possente e risoluto paragonabile architettonicamente ad una cattedrale, le cui strutture portanti sono però contemporaneamente erose da un discorso musicale che, pur restando fedele alla suddivisione in quattro movimenti e alla forma sonata, si sviluppa in una «divagazione inesausta» attraverso grandi blocchi tematici non chiaramente delimitati ma interrotti da «falsi finali» o separati da pause così come da episodi di giuntura che introducono il tema successivo senza mai, come affermato da Hugo Wolf, concedersi un definitivo o quantomeno prolungato rasserenamento. Frasi spesso lasciate senza alcun sostegno, continue attese frammiste di palpiti e silenzi. Il calore degli archi e la forza ascensionale delle fanfare sono le caratteristiche sonore di una musica che sembra non comprendersi vagando in un’incertezza frammentaria incapace di completezza, quasi a voler richiamare la fragile personalità del nostro musicista sempre proteso verso una progressiva espansione verso l’alto, così che i passaggi di raccordo tra le diverse sezioni tematiche potrebbero essere definiti «lampi metafisici», tanto diviene rarefatto il materiale sonoro che sembra perdere momentaneamente concretezza prima di riorganizzarsi nel tema successivo. Le insicurezze e le fratture che scaturiscono numerose dall’ascolto delle sinfonie contribuiscono a delineare al meglio la personalità di Bruckner, totalmente immerso in una solitudine che altro non è se non il segno di un’imperturbabile fede, che si palesa nelle note di una musica che anela senza fine, tra risalite e ricadute, all’ascesa verso la trascendenza. Una solitudine «come sete di totalità inesausta e implacata» che trova espressione musicale in moti di orgoglio che si ripiegano in intimismi pieni di dolcezza e compassione per la piccolezza dell’uomo, il quale nell’autocoscienza della sua condizione sa però esprimere con la musica l’assoluta certezza che la distanza che lo separa da Dio non può essere detta ma solo suonata. Non da un solista ma da una grande orchestra di musicisti che insieme costituiscono la symphonia. Bruckner è la mente che si insinua nella moltitudine degli strumenti che insieme irradiano, tanto nelle composizioni di carattere sacro quanto in quelle sinfoniche, la differenza tra il mortale e il divino cantando la trascendenza di un Dio Padre, estremo interlocutore a cui infine sarà dedicata l’ultima sinfonia. L’aggettivo che più si addice alla musica bruckneriana è “solenne”, feierlich, una propensione continua all’assoluto, fermate e riprese senza fine lungo giganteschi affreschi sinfonici tendenti ad un’infinita dilatazione e limitati solamente dalla contingente finitezza della durata esecutiva. La musica di Bruckner non si risolve in un pacato invito all’ascolto ma è un movimento che tende a travolgere l’interiorità stessa dell’ascoltatore, che condivide con il musicista il richiamo verso l’alto. La solitudine di Bruckner, che non sembrerebbe esperire la vita di comunità propria del Cattolicesimo, è una condizione che non si deve confondere con l’intimismo pietista – egli diceva di sé di essere «una natura infiammata di cattolico, Brahms, un freddo temperamento di protestante» – ma che trova una plausibile spiegazione tramite la lettura stessa della maggior parte delle sue opere sinfoniche che si potrebbero definire, per la loro struttura, corali. Una solitudine desiderosa di aprire al mondo la propria esperienza mu sicale e insieme di fede attraverso una «coralità» che trova corrispondenza in una «comunità» di ascoltatori uniti nella condivisione dello stesso Credo, analogamente a ciò che accade durante la celebrazione del rito cattolico della Messa, alla volta di una concezione musicale tesa ad un’ecclesialità permeata di sincera devozione nei confronti del divino.
Andrea Camparsi